Una delle conseguenze che la famiglia potrebbe trovarsi ad affrontare nel caso in cui il figlio minorenne sia l’autore di un atto di bullismo, è quella economica del risarcimento del danno.
“Chi rompe paga”.
Questo modo di dire traduce in parole semplici un principio basilare della nostra organizzazione sociale e del diritto civile, in cui rientra la disciplina del risarcimento: chi causa un danno ingiusto è obbligato a risarcirlo.
Nel caso di minorenni, le applicazioni di questo principio richiedono alcuni adattamenti. è facilmente intuibile, ad esempio, che se un bambino di 2 anni rompe un vaso di cristallo, non potrà essere lui il soggetto chiamato a risponderne, in proprio. In questo caso, infatti, il risarcimento dovrà essere pagato da chi ne aveva la sorveglianza (art. 2047 c.c.).
Altra questione è, invece, se un diciassettenne danneggia volontariamente qualcun altro.
La differenza fondamentale sta nella capacità del minorenne di intendere e di volere.
Nel diritto civile, tuttavia, non esiste la previsione di un’età spartiacque oltre la quale il minorenne è considerato sicuramente capace di intendere e di volere.
Bisogna quindi approfondire quale sia il grado di maturità del minorenne.
Quando il figlio è considerato dotato di questa capacità, egli risponde personalmente dei danni arrecati, ma oltre a lui sono responsabili anche i genitori (o il tutore) che abitano con lui, nonché gli insegnanti (o coloro che lo preparano per un mestiere o un’arte) mentre è affidato alla loro vigilanza (art. 2048 c.c.).
Le responsabilità dei genitori e degli insegnanti (per questi ultimi, solo nel caso in cui l’atto di bullismo accade mentre vige il loro obbligo di sorveglianza), in questo caso, sono quindi “concorrenti”, insieme a quella del minorenne capace. È ovvio, tuttavia, che il danneggiato troverà più logico scegliere di rivolgere le proprie richieste all’adulto, essendo più probabile che quest’ultimo abbia un patrimonio che possa soddisfare le pretese risarcitorie.
Responsabilità “diretta” dei genitori per culpa in educando e culpa in vigilando
L’orientamento maggioritario della giurisprudenza ritiene che la responsabilità dei genitori prevista dall’art. 2048 c.c. non sia “indiretta”, cioè per il fatto altrui, ma “diretta”, cioè per il fatto proprio.
Qual è il fatto che i genitori commettono e che può essere causa di un danno per la vittima del bullismo?
A carico dei genitori vigono due fondamentali obblighi, il cui inadempimento è la fonte della responsabilità risarcitoria: l’obbligo di vigilare e l’obbligo di educare.
Quando un minore commette un danno ingiusto, come può accadere nel caso del bullismo, si presume che i genitori non abbiano vigilato su di lui e non lo abbiano adeguatamente educato, divenendo quindi “diretti” responsabili del fatto dannoso.
Per vigilanza, quando il minore è capace di intendere e volere, si intende non una continua presenza, ma una sorveglianza adatta alla sua età, al suo carattere, alle sue abitudini ed al suo grado di maturità.
Per educazione, si intende un’adeguata formazione della personalità del figlio, tale da consentirne uno sviluppo psico-fisico equilibrato, la capacità di dominare gli istinti, il rispetto degli altri.
I due obblighi si intrecciano: l’obbligo di educare comprende quello di vigilare che effettivamente il comportamento del figlio corrisponda all’educazione impartitagli ed ai suoi risultati.
I genitori possono essere esonerati da questa responsabilità?
La responsabilità di cui all’art. 2048 c.c. che comporta l’obbligo di risarcire il danno viene meno se i genitori dimostrino di non aver potuto impedire il fatto.
È possibile, infatti, che il minorenne causi dei danni nonostante tutte le cautele e l’educazione impartita dai genitori.
Tuttavia, “provare di non aver potuto impedire il fatto” significa dimostrare di aver pienamente adempiuto al proprio dovere educativo nei confronti del figlio.
I genitori, quindi, potranno essere esonerati dall’obbligo di risarcire il danno solo nella misura in cui riescano a dimostrare di aver impartito al figlio un’educazione “normalmente sufficiente a impostare una corretta vita di relazione in rapporto al suo ambiente, alle sue abitudini, alla sua personalità” (Cass. civ., Sez. III, 19/02/2014, n. 3964) e di averlo dunque adeguatamente sorvegliato e ben educato.
Cosa fare nel caso in cui il proprio figlio sia autore di un atto di bullismo?
Come si può dedurre, sottrarsi alle responsabilità derivanti dal comportamento bullizzante del proprio figlio non è così semplice, poiché non è semplice l’obbligo educativo di qualsiasi genitore né dare la prova di come questo obbligo sia stato assolto.
La prima raccomandazione è quella di adoperarsi dal punto di vista psicologico sin dai primi comportamenti “prepotenti” manifestati dal minorenne, magari ricorrendo ad un aiuto professionale e competente, anche per farsi supportare nel compito educativo.
Questo tipo di intervento, infatti, da un lato potrebbe giovare a figlio e genitori e dall’altro, magari, aiutare a fornire quella “prova liberatoria” che dimostri di aver fatto il possibile per impedire l’eventuale atto bullizzante e dannoso.
Se il fatto bullizzante è già stato commesso, il consiglio è di adoperarsi anche dal punto di vista giuridico per inquadrare esattamente il caso e gestirlo nel modo corretto fin dal principio, al fine di attenuare, se non evitare, le eventuali conseguenze pregiudizievoli.
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